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9 giugno 2010: Prudhoe Bay, meta finale di questo viaggio dall’estremo sud all’estremo nord

Non c’è mai stato il buio, questa notte. Ogni tanto aprivo un occhio per cercar di capire se piovesse oppure no. La pioggia potrebbe essere l’unico impedimento lungo la via per Prodhue Bay. Sono gli ultimi 750 kilometri con prua a nord.

Di questo tratto di strada/pista, ne ho sentito parlare in tutte le maniere. Ho letto resoconti di viaggio, ho guardato dei video. Sembra che la prima parte, da Fairbanks fino a Coldfoot (il nome rende già bene l’idea di cosa ci si può aspettare), non presenti difficoltà. Il secondo tratto invece dovrebbe essere tutto in sterrato ed oltre le montagne, lungo la North Slope, la situazione potrebbe essere molto difficile, oltrechè variabile. Tutti raccomandano l’uso di pneumatici tassellati ma io monto delle gomme da misto e non intendo certo cambiarle per fare queste poche miglia. L’importante è che non piova. Le previsioni meteo sono contrastanti ma io terrò in considerazione solamente quelle che assicurano il sole.

Il mio programma prevede di coprire il percorso in due tappe. La prima, relativamente corta, fino a Coldfoot. Sono solo 330 km e pertanto me la prendo comoda. Sta piovigginando ed aspetto, sperando che il cielo si apra. Niente da fare. Alle 11 comincio a vestirmi ed indosso anche stivali e tuta da pioggia. Parto dopo mezz’ora, vestito come un palombaro. Piove e piove e piove. Entro nella zona delle miniere d’oro. Sarebbe possibile compiere la visita ad una di esse, con un trenino che ne percorre le gallerie. Entro nel piazzale e mi trovo davanti ad una quantità tale di pullman di turisti che giro la moto senza nemmeno fermarmi.
In tutta l’area la toponomastica ricorda i nomi più classici dei romanzi scritti e delle pellicole girate sull’epopea dei cercatori d’oro.
La strada si srotola lungo pendii e vallate verdeggianti, entro foreste fittissime i cui alberi sono però più piccoli ed esili.
Man mano che si procede verso nord, la vegetazione decresce e sempre più spesso noto ampie zone di alberi morti e vaste radure desolate, dove rimangono fuori dall’erba solo monconi di tronchi e qualche cespuglio.

Sul lato della strada, procedendo a zig zag, corre il tubo dell’oleodotto che trasporta il petrolio di Prodhue Bay fino ad Anchorage. É un’opera colossale e la strada che sto percorrendo è nata proprio a seguito della scoperta del petrolio, lassù, dove sto andando.
D’un tratto l’asfalto termina ed il fondo stradale divento uno sterrato. Ghiaietta sciolta ma tutto sommato si procede bene. Devo prendere le misure. Dopo tanto correre sull’asfalto è necessario “sentire” la moto. Tiene bene e dopo poco la velocità torna ad essere quella di prima.
Non piove più e le nuvole si stanno diradando. Il sole comincia a fare il suo lavoro e la temperatura sale. Ormai non c’è più nessun paese, nemmeno un piccolo gruppo di case eppure ci sono sempre le aree di sosta dotate di servizi igienici, ci sono i cassonetti per i rifiuti ed è sempre tutto pulito.
Ogni tanto ritorna qualche tratto di asfalto, poi nuovamente sterrato. Il fondo è di base argilloso e credo che con la pioggia potrebbe davvero diventare difficile e pericoloso.
Non si vedono più nemmeno i camperoni con macchina al seguito, solo camion, enormi, velocissimi, carichi di macchine operatrici o cisterne o chissà quali diavolerie da petrolio.

La natura è sempre più selvaggia. Ormai si vedono solo uccelli acquatici e corvi. Ora la scarpata scende verso il mitico Yukon River, protagonista di mille storie vere e di celluloide. É molto largo ed io mi sento piccolo piccolo.
Passo sul ponte e mi fermo a guardare le sue acque che mi scorrono sotto. Ormai fa caldo e mi fermo all’unico punto di ristoro tra Fairbanks e Coldfoot. Ci sono 24 gradi e mi tolgo la tuta ed alcuni altri strati. Il solito hamburgher, riempio il serbatoio con una benzina che diventa sempre più cara man mano che ci si avvicina al pozzo di estrazione della materia prima e riparto. La segnaletica è sempre perfetta ed ogni stradina, ogni fiumiciattolo sono indicati con il loro nome. Mi risulta pertanto facile fare il punto sulla mappa. Il GPS invece non riporta nessuna informazione utile, in questa parte del mondo, ma si limita a registrare la traccia.

Mi fermo spesso, tanto il sole è ancora alto. A volte, attraversando un ponte, vedo un colore particolare dell’acqua o il ghiaccio che ancora resiste alla corrente o qualche uccello che nuota e non posso che fermarmi e tornare indietro.
Quando tolgo il casco vengo però assalito dalle zanzare che in molti casi mi perforano le mani fino a fare uscire gocce di sangue.
Il ghiaccio qui è ancora molto spesso, sebbene nelle ore più calde la temperatura raggiunga valori inaspettati di oltre 24 gradi. Ci vorrà tutta l’estate per scioglierlo.

Arrivo a Coldfoot che sono appena le 18. Per fermarmi qui mi sembra ancora presto. Il sole è allo zenit, fa caldo. Il posto sembra più un accampamento di zingari o un cantiere. Polvere, rumori e camion che vanno avanti e indietro. No, non mi voglio fermare qui. Devo fare il pieno di benzina. Questa è l’ultima pompa prima di Prodhue Bay e mancano 250 miglia. La mia autonomia mi consentirebbe di arrivarci appena appena, ma solo se andro’ piano e non ci sarà molta salita. Meglio non rischiare. Devo trovare una tanichetta, una bottiglia, qualcosa che possa contenere almeno almeno 3 litri di benzina da scaricare subito nel serbatoio, dopo i primi 50 chilometri, appena s’è creato uno spazio sufficente.
Il gestore del bar mi presta una tanichetta da un gallone, ma non ha il tappo.
Ci metto un po’ ma poi risolvo e parto. L’idea è quella di procedere per un paio d’ore e poi di fermarmi per la notte vicino ad un lago, dove mi hanno detto che la gente a volte campeggia. Il primo inconveniente si presenta quasi subito. Per lavori stradali in corso, mi trattengono a far da pasto alle zanzare per quasi mezz’ora. Dopo una cinquantina di chilometri mi accorgo che sto per perdere la tanichetta. Mi fermo ed approfitto per svuotarne il contenuto nel serbatorio. Ci sta a filo.

La strada è tutta per me. Mi sono reso conto che non c’è più traffico. Quando mi fermo il silenzio è assoluto, irreale. Anche gli uccelli ormai si sono ritirati. Sono a mille metri di quota e l’atmosfera è tersa ed emana una luce strana, traslucida. Il sole è alto sull’orizzonte e quando non è nascosto dalle nubi, scalda ancora.
I tratti innevati cominciano ad essere più frequenti e la vegetazione arborea è sparita completamente.

Non manca moltissimo per Deadhorse, la cittadina nata sulla costa del mare artico. Comincia a solleticarmi l’idea di arrivare fino alla meta con il sole di mezzanotte. Perchè no, sarebbe bellissimo. E poi qui non c’è nemmeno un boschetto dove ripararsi. Le montagne che sto attraversando coprono il sole e all’ombra la temperatura cala subito di alcuni gradi. Ormai il termometro segna quasi sempre 12 ma al sole sale ancora fino a 16.

La vista delle montagne che si colorano di rosa al tramonto mi ricorda le dolomiti. Vado avanti ed comincio a salire. Di tanto in tanto c’è qualche stazione di pompaggio e rilancio del petrolio nell’oleodotto. Un campo enorme con molti serbatoi, containers, macchinari, officine ed alloggi per il personale. Ma non si vede un’anima viva. Siamo io e quel tubo enorme che corre a fianco a me come un serpente lucido e infinito. In qualche modo mi fa compagnia e mi rassicura.

Accarezzo il serbatoio della mia Hondina, come farei con un puledro di razza. Non abbandonarmi bella mia, siamo quasi arrivati, ormai. Salgo al passo e sono tra montagne ancora imbiancate di neve, poi inizio la lunghissima discesa dello North Slope. Si apre davanti a me la tundra, piatta e ventosa. Il blizzard comincia a farsi sentire subito e il termometro scende ad una velocità impressionante. Io sono ben coperto, mi son rimesso la tuta da pioggia perchè il vento mi penetrava fin sulla pelle. Sto bene, tranne i piedi che sono sudati negli stivali di gomma ed ora stanno gelando. Mi ero messo anche due pastiglie riscaldanti incollate ai calzini, ma il loro effetto è terminato già da alcune ore. Qui non c’è rifugio. O torno indietro o devo arrivare fino a Deadhorse.

Mi attraversano la strada diversi branchi di caribù e si fermano a guardarmi. Sono molto belli e con questa luce strana sembrano proprio le renne di Babbo natale. Ormai mi mancano solo una cinquantina di kilometri ma nonostante io vada verso nord, il sole ce l’ho proprio in faccia, all’altezza degli occhi, abbagliante. La pista è sconnessa e a tratti ci sono dei solchi o delle buche, poi ghiaino sciolto ed infine comincia ad esserci il ghiaccio. Non vedo nulla, sono accecato dal sole.
Lo spettacolo è affascinante, ma non vado avanti. Devo rallentare fino a 20 km/h o guidare con una sola mano per poter tenere l’altra a protezione degli occhi. Rallento. Questo ultimo tratto non finisce mai. Il vento laterale mi spinge e la temperatura è di soli 2 gradi. La strada luccica di ghiaccio e si confonde con la neve che ricopre la tundra, sui due lati.

Finalmente intravvedo qualche sagoma di costruzioni in lontananza. Mi ci vorrà però ancora mezz’ora per arrivare ai primi insediamenti. Sono dei capannoni industriali e file infinite di macchinari. Una desolazione assoluta. Le luci sono accese ma sbiadiscono con questo irreale chiarore diurno. Mi avevano detto che non sarebbe stato possibile montare una tenda sul posto. Non è consentito per ragioni di sicurezza. Che fare? Qui fa un freddo tremendo. Non c’è un’anima da nessuna parte. Il silenzio è assordante. Penso a dove piantarla. Gli unici posti possibili sono degli slarghi lungo la strada appena percorsa ma il fondo è di ghiaia compatta e con questo vento temo che mi sarebbe difficile tenerla ferma senza i picchetti. E si, perchè i picchetti mica si piantano sul terreno ghiacciato. Poi, alla disperata, entro in una stradina che si inoltra nella tundra e fermo la moto.
Scendo e mi inoltro su quello che difficilmente potrebbe definirsi un prato, ma ci assomiglia. Ci sono dei cespi di un’erba strana, secca e dura e ritorta. Sembrano cespuglietti di alghe. Sotto c’è sabbia e sembra morbida. Ok, è deciso, monterò qui, poi se qualcuno verrà a mandarmi via, dovrà almeno aiutarmi a smontare e caricare la moto. Ma allora sarà già mattina. Detto fatto, più detto che fatto, alle 2,30 di mattina saluto la piccola, che lascio sulla pista ad aspettarmi, mi infilo nel sacco a pelo e comincio a massaggiarmi i piedi che sono gelati. Fuori il sole sta ormai girando ad oriente e tra poco sarà mattina.


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Download itinerario del 9 giugno 2010 >> (per visualizzare il tour è necessario Google Earth)


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2 Commenti a “9 giugno 2010: Prudhoe Bay, meta finale di questo viaggio dall’estremo sud all’estremo nord”

  • Vinicio Pozza:

    Che dire Ugo di questa grande avventura? Mi viene solo da pensare di come si possa ritornare alla quotidianità dopo un’esperienza del genere!Se fosse per me penso che un’avventura così sarebbe alla fine una dannazione.Ti invidio e ti ammiro.Ciao Vinicio Pozza

  • Hello Kitty:

    Caro Ugo, complimenti! Non avevamo alcun dubbio circa la riuscita della tua impresa: conosciamo la tua tempra d’acciaio, per non parlare della tua determinazione. Sapevamo che ce l’avresti fatta e saresti arrivato in cima! Bravo, bravissimo.

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