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Meteo

1 giugno 2010

Sembrerebbe una buona giornata per riprendere il viaggio. Il cielo è grigio ma è una copertura chiara, spero che non peggiori.
La freeway è intasata dal traffico che scorre lento sulle 5 corsie. Seattle mi sfila sui due lati e lentamente esco verso nord, attraversando l’ultimo ponte.
Le case di periferia mi accompagnano ancora per alcune decine di chilometri e poi rimane solo la campagna. Il limite di velocità, per la prima volta da quando sono arrivato negli USA, è di 70 miglia/h.
Ho perso un paio d’ore per cercare un litro d’olio motore della gradazione che mi serve, da aggiungere all’attuale scorta. Meglio evitare di trovarsi in difficoltà nelle terre dove i centri abitati cominceranno a scarseggiare e saranno comunque di piccole dimensioni.

La distanza tra Seattle ed il confine è relativamente breve, sono solo 200 km. Li percorro rapidamente e alle 2 pm mi trovo in coda al confine. Dopo mezz’oretta sono davanti al doganiere canadese. Ma la frontiera USA? Io non l’ho vista. Poche formali domande: “Hai armi? Hai droga?” – “No e no!” – “Allora ok, puoi andare.”

Sono in Canada. Attraverso Vancouver che dista una cinquantina di kilometri ma il GPS non dispone della mappa e le due carte stradali non hanno abbastanza dettaglio. Un po’ giro, un po’ mi perdo, poi chiedo e sono fortunato. Imbocco quasi subito la strada giusta e pian piano mi allontano dalla cittò. Ho visto poco, ma quel che ho visto mi è piaciuto. É un’altra città sull’acqua, come Seattle. Ci sono porticcioli e barche ormeggiate ovunque. Il centro cittadino non ha un traffico convulso ed è molto pulito.

Riesco ad imboccare la highway 99 che mi trasporta rapidamente verso nord, costeggiando un braccio di mare che si insinua profondamente tra le montagne ancora bianche di neve. Gli scorci che riesco a cogliere sono di rara bellezza. Sembra un posto incantato. Boschi, neve e mare, tutto assieme. Procedo per altri 200 km dopo il confine e poi comincia ad imbrunire ed a fare freddo. Mi fermo per la notte in un hotel di un paesino di cui non ricordo nemmeno il nome. Il gestore è un indiano, di quelli con il turbante.

Il tempo mi ha dato una mano e la giornata è trascorsa senza una goccia di pioggia. Ora sono le 9 di sera e sto uscendo dal ristorante. Piove e sulle montagne che incombono sul paese le nubi sono basse. Non mi stupirei se lì stesse nevicando.


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31 maggio 2010

……………fine dell’intervallo. Ora pioggia o no, parto. Ieri sera ho cucito sulla giacca l’ultima bandiera, quella del Canada. E con questa sono ben 14, per altrettanti stati (o confederazioni di stati) attraversati in questi tre mesi. Un totale ad oggi di 28.000 km, percorsi su 3 copertoni anteriori e 4 posteriori. Pioggia, vento, caldo e freddo nei limiti. Ora spero che la fortuna mi segua e che anche l’ultima tappa si svolga in un clima abbordabile.

Ho perso dei giorni, in questo ultimo periodo, ma mi serviva comunque attendere l’inizio di giugno per garantirmi l’assenza di neve ed una temperatura accettabile. Da Seattle oggi si vedevano in lontananza le cime ancora imbiancate delle montagne.
La meteo di oggi annunciava acquazzoni ed è invece uscito il sole. Per domani promette uno spiraglio di buono, con solo un 20% di probabilità di pioggia. Crediamoci……….


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30 maggio 2010

Oggi ho girato per Seattle ed ho osservato la gente. É domenica ma quasi tutti i negozi sono aperti. Pioviggina e fa freddo ma la gente cammina e corre nei parchi, le biciclette girano e molte barche bordeggiano sui laghi.
L’umanità qui è addobbata in maniera variegata e variopinta ma nessuno si fa specie di nessuno. Vecchi hippyes e nuovi tatuati si mescolano con allegre vecchiette secche e giganti panciuti. Il numero di persone in carrozzella è insolito, per un europeo. Qui si muovono tutti, in qualsiasi condizione fisica si trovino, anche con la bombola dell’ossigeno nello zaino. Le barriere architettoniche sono state abolite e la circolazione non presenta difficoltà, come invece avverrebbe da noi.
Nel centro città si circola bene ed i parcheggi, carissimi, sono ovunque. Non ho visto molta polizia sulle strade ma il traffico è disciplinato e la città pulitissima. Ho notato un contrasto enorme tra la necessità di pagare anticipatamente la benzina in tutti i distributori e l’assoluta libertà di movimento all’interno dei centri commerciali, dove ci sposta tra i vari reparti con la merce, senza nessun apparente controllo.
Ho attraversato quartieri residenziali con ville bellissime e splendidi giardini. Se non fosse per il clima, definirei Seattle una tra le città più vivibili che io abbia finora visitato.


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29 maggio 2010

Oggi pioviggina e fa freddo. Mi sono spostato in un monolocale con cucinetta e così mi posso preparare qualche cibo più digeribile.

Ho cercato un negozio di moto e mi sono comperato un paio di guanti caldi e garantiti impermeabili. I miei purtroppo ormai, quando vedono il cielo grigio, già si inzuppano. Nelle ultime tappe avevo infilato le mani guantate in due sacchetti di plastica che però duravano poco e continuavano a sfilarsi. Ironia della sorte, i migliori guanti che ho trovato a Seattle sono prodotti a Vicenza, dalla Spidi. Ho poi cercato un negozio di abbigliamento sportivo ed ho preso una calzamaglia termica. Meglio essere previdenti, no?

Domani vorrei partire. Se proprio dovesse essere brutto tempo potrei aspettare ancora un giorno, poi andrei in ogni caso almeno fino a Vancouver.
L’ultimo tratto che ancora mi manca è di circa 5.700 km, se il tempo mi permetterà di arrivare fino a Prodhoe Bay, di 4.500 circa se dovessi essere costretto a rinunciare all’ultimo tratto e girare a Fairbanks verso Ankorage. Le medie potrebbero essere mediamente più alte e non dovrei impiegarci più di 20 giorni.
Poi ci sarà l’incognita della spedizione della moto. Continuo ad inviare mail a varie agenzie ma le risposte sono sempre piuttosto vaghe. Sto anche valutando la possibilità di percorrere un tratto di avvicinamento in battello. Ho letto degli articoli che consigliavano questa alternativa, che consente di apprezzare la bellezza dei luoghi da una prospettiva differente. Il tratto di navigazione sarebbe di 600/700 km ma per raggiungere il punto di partenza e poi rientrare sulla highway a nord, la deviazione sarebbe comunque di circa 400 km. Ora controllerò date e costi e poi deciderò.


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28 maggio 2010

Sono a Seattle e piove. La Boeing, azienza leader mondiale nell’ambito aerospaziale, ha in periferia di Seattle la sua principale base produttiva. Quale migliore occasione per compiere un tour all’interno di una delle sue fabbriche? Qui negli USA vendono anche l’aria che si respira, è pertanto più che normale che del loro lavoro ne facciano uno spettacolo da vendere ai turisti. Tour organizzati partono continuativamente per compiere una visita guidata che consente di osservare da vicino le varie fasi di produzione di alcuni di questi mastodonti dell’aria.

Boeing produce jet di linea ed apparecchi militari, la sua tecnologia è all’avanguardia ed è pertanto logico che tema lo spionaggio industriale. Fotocamere, videocamere e telefoni cellulari sono pertanto banditi e devono rimanere all’esterno del recinto. Purtroppo il mio reportage sarà quindi privo di documentazione fotografica.

Boeing fornisce apparecchi ad oltre 90 clienti internazionali ed il suo bilancio commerciale come esportatore è uno dei più consistenti di tutti gli USA. Con 12.000 velivoli in circolazione, la Boeing rappresenta il 75% del totale delle flotte circolanti nel mondo.
La sua organizzazione impiega circa 160.000 persone e costituisce un richiamo per migliaia di cervelli provenienti da ogni nazione.
I prodotti di spicco sono attualmente i modelli 737, 747, 767, 777 e 787.
Il Boeing B787 Dreamliner merita una descrizione particolare. É un bimotore a fusoliera larga (wide-body), assemblato con parti prodotte in svariate nazioni di tutto il mondo, tra cui l’Italia, ed è il primo al mondo, tra gli aerei di linea, a fare un uso massiccio della fibra di carbonio. L’aereo ha effettuato il suo volo inaugurale il 15 dicembre 2009.

Il tour prevede la visita alle catene di montaggio di alcuni modelli. Le lavorazioni si svolgono all’interno di un capannone dalle dimensioni inimmaginabili (472,000,000 cubic feet, pari a 13,385,378 metri cubi) che dicono essere il più voluminoso edificio del mondo.
Dai tunnel sotterranei si passa alle passerelle aeree dalle quali si possono osservare gli operai all’opera sulle varie parti dell’aeroplano. Piccoli e numerosi come formiche, si muovono sul pavimento dell’Hangar, 20 metri più sotto. Le fasi sono molte e le parti dell’aeroplano vengono trasportate da una zona di lavorazione alla successiva con l’impiego di enormi carriponte.
Impressionanti le dimensioni di uno degli ultimi nati, uscito dalle costole di un 747, cui è stata rifatta la fusoliera per ampliarne il volume. La sua storia iniziò nel 2003, quando la Boeing annunciò che un 747-400 passeggeri sarebbe stato convertito in uno speciale aereo cargo per trasportare a Seattle le parti del nuovo 787, realizzate in varie parti del globo, per ridurre i tempi e gli alti costi del trasporto marittimo. Basti pensare che i tempi di consegna delle ali, costruite in Giappone, si sono ridotti da 30 ad un solo giorno.

Terminato il tour, ho visitato una sorta di museo dell’aria dove si possono ammirare piccoli esemplari in scala reale e parti dei grossi velivoli di linea.
Sono salito in cabina ed ho impugnato il volantino di uno dei vecchi modelli. Nessuna emozione, è sicuramente piu’ interessante un bel volo in aliante!!!


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27 maggio 2010

Ho visitato il centro di Seattle. Ai piedi delle grandi torri vetrate che svettano verso il cielo grigio, ci sono piccoli fabbricati in legno che ricordano le origini della città.
Il mercato di Pike street è un fervore di attività ed è invaso dai turisti. Sui banchi fanno bella mostra di sè tutti i prodotti ittici del nord Pacifico, belle verdure e frutta fresca e poi tanti fiori e prodotti dell’artigianato indigeno.

La città appare molto vivibile ma i prezzi dei parcheggi sono impossibili. 4,75 dollari la prima mezz’ora, 2,75 dollari ogni mezz’ora successiva. I trasporti pubblici non sono ben sviluppati ma mi voglio informare meglio. Venire in centro con la moto è faticoso e poi mi ritrovo sempre in divisa. L’hotel è fuori, in periferia, 20 km a sud. Devo trovare un modo per spostarmi.

Purtroppo le previsioni del tempo continuano a dare brutte notizie e prima di partire vorrei avere almeno la prospettiva di una schiarita. Dovrò in ogni caso escogitare un sistema per fissare al manubrio delle manopole di materiale impermeabile, magari imbottito (si vedevano un tempo sul Galletto della Guzzi), perchè quando piove i guanti si inzuppano e poi le mani si gelano. Con gli stivali di gomma che ho comperato ho risolto il problema dell’acqua ma rimane sempre quello del freddo.


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26 maggio 2010

Seaside è carina ma, vista la stagione, ancora deserta. L’enorme spiaggia è vuota ed i pochi turisti indossano maglie e cerate. Le case sulla spiaggia sono tutte in legno e dipinte con colori vivaci. La main street è fiancheggiata da negozi di souvenir e ristoranti. Se c’è una cosa che non manca, qui negli USA, sono i locali dove viene prodotto e venduto il cibo. Tutti hanno sempre in mano un bicchiere o una lattina e nell’altra un pasticcino o un hamburger. I risultati si vedono. Ho smesso di affrontare le colazioni mattutine perchè sono delle bombe caloriche, anche se prendo solo un croissant o una pasta. Per dimensioni e contenuto in zuccheri e grassi mi è sempre difficile riuscire a terminare quanto mi mettono davanti. Stessa cosa a pranzo. Se prendo un zuppa mi ritrovo con una montagna di prodotti vari ammonticchiati in una tazzona, riccamente conditi con salse a base di formaggio. Quando ho deciso di mangiare pizza, non sono mai riuscito ad andare oltre la metà. La carne è saporita e quasi sempre accompagnata dalle immancabili patatine fritte. E poi chi ha detto che negli USA si spende poco? No, non è vero, negli USA si spende nè più nè meno che in Italia. Una buona bistecca, al supermercato, costa tra i 10 ed i 15 dollari. Al ristorante attorno ai 20.

Stamattina sono in ritardo ma la strada da percorrere sembra molto buona e anche se piove riesco a tenere una media accettabile. In prossimità del confine tra Oregon e lo stato di Washington, ad Astoria, attraverso un tratto di mare su un ponte molto particolare. Si sale fino all’ingresso percorrendo un’ampia rampa circolare e si imbocca il ponte in salita. Superata la prima grande campata, la strada scende ripida e sembra tuffarsi nell’acqua. L’atmosfera nebbiosa rende invisibile l’altra sponda e un forte vento scuote la struttura metallica. La pioggia mi sferza e sono costretto a rallentare molto. Man mano che procedo verso nord il traffico aumenta. Non ci sono camion fortunatamente ma ormai trovo ovunque colonne di auto. Si procede a passo d’uomo in prossimità di ogni paese, anche se la freeway non lo attraversa. Le ultime decine di kilometri prima di giungere a Seattle li sto percorrendo quasi a passo d’uomo. Poi, nell’attraversamento della città, le corsie raddoppiano ed a tratti arrivo a contarne fino a 8. Qui il traffico si scatena e tutti scordano i limiti. Mi trovo costretto a correre in una carrera messicana con auto che sfrecciano da tutte le parti.

Cerco di individuare qualche hotel dove potermi fermare ma attraverso tutta la città senza trovare nulla. Poi, con la coda dell’occhio vedo un paio di insegne, dall’altra parte dell’autostrada. Esco alla prima uscita e rientro in senso inverso. Con un po’ di fortuna arrivo a destinazione.
Le previsioni del tempo per i prossimi giorni sono pessime e temo che dovrò fermarmi qui ancora un po’, prima di riprendere il mio viaggio.


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25 maggio 2010

Stanotte pioveva, stamattina pioveva, oggi piove. Ho ritardato la partenza nella speranza che smettesse, poi sono andato a comperarmi un paio di stivali di gomma, mi sono infilato la tuta da pioggia e sono partito. Non fa particolarmente freddo, probabilmente mi ci sto abituando. Ho indossato la mutina felpata a contatto con la pelle e infilato un paio di calzettoni di lana merinos. Rimane ancora il problema dei guanti che dopo un po’ si inzuppano. Dovrò costruirmi dei paramani in tessuto impermeabile.

La strada si snoda a bordo oceano e tra le foreste della costa. La velocità ridotta comincia però a diventare un problema. Non si avanza. I limiti sono assolutamente ridicoli e nei paesi che lungo la costa sono numerosi, si scende anche a 20 miglia/ora. Le strade sono belle ed invogliano a correre ma nessuno lo fa ed io mi adeguo, ovviamente. Con questo andare mi addormento ma soprattutto non avanzo. Ci sono mille deviazioni che segnalano punti di interesse o strade panoramiche ed ogni tanto ne seguo qualcuna per alcune miglia. Purtroppo la luce è poca e non riesco a scattare foto decenti. Con la tuta addosso ogni movimento diventa difficile e così, alla fine, rinuncio anche dove invece ne varrebbe la pena.

I campeggi sono uno dietro l’altro e sono tutti affollati di camper enormi. Credo che una buona parte appartengano a turisti e viaggiatori ma tanti sono in sostituzione delle abitazioni fisse. I paesi che attraverso danno l’idea di insediamenti precari, in attesa di sistemazione, ma sono invece semplicemente e definitivamente così, con casette in legno che sfilano lungo la strada, negozietti e ristorantini con insegne luminose e vetrate all’inglese, le grandi costruzioni larghe e basse dei supermercati.
La maggior parte del territorio appare ancora selvaggia e solo in prossimità dei centri abitati si scorgono pascoli ed animali d’allevamento. Non noto industrie e non c’è apparentemente traffico commerciale. Probabilmente lungo la costa la vocazione del territorio è prevalentemente turistica ed infatti i lodge, gli hotels ed i motel sono numerosissimi.

Mi sono fermato a Seaside per la notte. É ormai buio e non ho avuto modo di visitarlo ma sembra carino. Alle nove di sera è già tutto chiuso ma domattina farò un giretto lungo la main street.


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24 maggio 2010

L’Oregon mi sembra molto interessante. Lungo la via si alternano visioni di fitte foreste, laghi, torrenti tortuosi che sfociano in mare e spiagge deserte bagnate da un’acqua plumbea che tutto ispira fuorchè la voglia di tuffarcisi dentro. Tra la strada e l’oceano, per molte miglia si costeggiano delle alte dune di sabbia e quest’area, oltre che parco nazionale, è diventata un centro di attrazione per motociclisti e quaddisti che ne hanno libero accesso.
Ho percorso le strade interne che mi hanno condotto fin dentro le dune. Quanto avrei voluto buttarmici sopra con un moto più leggera e scarica!!
Nei numerosi parcheggi disseminati ai piedi delle colline di sabbia, gli spazi sono giganteschi, realizzati a misura dei camper con rimorchio che si vedono ovunque. Come tutto qui in America, anche i camper hanno dimensioni spropositate e molti si trascinano a rimorchio l’auto o la barca. I noleggiatori di quad sono numerosi e la tentazione è forte. Ormai è quasi sera e dal cielo cominciano a scendere dei goccioloni. Meglio continuare e trovare un rifugio per la notte. Sulle dune ci andrò un’altra volta.

Il traffico in Oregon è praticamente nullo. Il problema maggiore sono i limiti di velocità: finora max 90 km/ora. Nell’attraversamento dei rari paesi il limite scende al livello impossibile dei 35 km/h.
Poichè a Reno mi hanno montato un pignone più piccolo di un dente, perchè avevano solo quello, vado in crisi proprio attorno ai 90/100 km/ora perchè in quinta il motore va giù di giri ed in 4 sta troppo su. Appena trovo una salitina sento che la moto rallenta subito.
Con l’olio invece va molto meglio. In messico ne consumavo 200/300 grammi al giorno, ora in 5 giorni non ha più mangiato nulla. É tutta questione di qualità.

 


Nota: Quando ieri ho letto sui cartelli segnaletici della presenza in zona degli Elks, avevo subito pensato agli Alci, rimanendone sorpreso in quanto la latitudine a cui mi trovavo non mi sembrava compatibile con il loro habitat ideale. I cartelli specifici del parco riportavano invece, inequivocabilmente, la fotografia dei cervi, appellandoli come Elk.

Ho compiuto qualche ricerca in rete ed ecco i risultati:

American Elk – Cervus elephus: http://www.nps.gov/archive/wica/Elk.htm

The name “elk” was given to the second largest member of the deer family by early explorers because they resembled the elk or moose of Europe. Because the American elk is not very closely related biologically to the European elk, the American Indian term “Wapiti” is sometimes used interchangeably to identify the animal.

This article is about the North American and East Asian animals, also known as wapiti. For the animal Alces alces, called the elk in Europe, see moose.

The elk, or wapiti (Cervus canadensis), is one of the largest species of deer in the world and one of the largest mammals in North America and eastern Asia. In the deer family (Cervidae), only the moose, Alces alces (called an “elk” in Europe), is larger, and Cervus unicolor (the sambar deer) can rival the C. canadensis elk in size.


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23 maggio 2010

Oggi, 23 maggio 2010, sono trascorsi esattamente tre mesi dalla partenza dall’Italia e 27.000 kilometri percorsi, con una media giornaliera, soste comprese, di circa 300. Ho celebrato con un pensiero rivolto a tutti e poi ho inforcato la moto ed ho ripreso la Freeway 101.

Lasciata la foresta degli alberi secolari, mi avvio verso la costa del Pacifico. Fa freddo e rimpiango di aver eliminato i guanti pesanti e le sottobraghe. Indosso il girocollo leggero e la pettorina. Sto procedendo a tappe lente, in modo da non arrivare in Canada prima di giugno ed affrontare poi il grande nord con una temperatura più mite. Quando sarò a Seattle dovrò acquistare calze pesanti, guanti imbottiti ed una calzamaglia. La moto va bene ma il vento a raffiche continua a darmi percezioni di rumori e vibrazioni mutevoli, cosa che mi crea qualche allarme ma senza motivo.

Entro ed esco da foreste monumentali, costeggio l’oceano, attraverso fiumi e torrenti carichi d’acqua. Ad un certo punto esco dalla freeway ed imbocco lo svincolo. Mi trovo subito davanti un’intera famiglia di cervi. Rimango sbigottito ad osservarli a distanza. Poi lentamente mi avvicino per poterli fotografare. Sono bestie stupende. Sono tutti esemplari giovani, tranne uno, il capobranco, che rifiuta di farsi vedere e nasconde il suo palco tra le foglie degli alberi. Il branco è sdraiato a terra e rimane ad osservarmi senza allarmarsi. Dopo aver scattato numerose foto, riprendo il cammino.

In serata attraverso il confine tra California ed Oregon e mi fermo subito dopo in una sorta di residence costituito da graziosi chalet in legno. La vista sulle scogliere del Pacifico è suggestiva. Il bungalow ha la cucina ed anche il barbeque. Decido così di ritornare al paese appena attraversato per fare acquisti di vettovaglie. Stasera mi cucinerò una buona porzione di linguine al pomodoro e basilico ed una grossa bistecca americana ai ferri.

L’aria è fresca e profumata. Quando torno allo chalet sorprendo due cerbiatti che stanno brucando l’erba del giardino. Mi avvicino fino a pochi metri. Non hanno paura ma preferiscono mantenere le distanze. Si allontanano lentamente e dopo un po’ si perdono tra i rami del vicino boschetto. Mi piacerebbe poterli rivedere domattina. Mi piacerebbe poterne vedere anche sulle nostre montagne, dove sono rimasti i cartelli segnaletici sulle strade di montagna, ma di loro non c’e’ nemmeno l’ombra.


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